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Il cinema di Leonardo Di Costanzo

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L’intervallo di Leonardo Di Costanzo è uno dei più bei film italiani usciti negli ultimi anni. Purtoppo l’hanno visto in pochi. Quando si inizia a parlare dello stato di salute delle nostre arti, alcuni appuntamenti bisognerebbe tuttavia non averli mancati. Distribuzione non è creatività. E ignorantia non excusat. Per fortuna si può recuperare. La Cineteca di Bologna ha pubblicato da poco un cofanetto intitolato L’età di mezzo dedicato proprio al cinema di Di Costanzo. Dentro ci trovate il dvd con tre film (L’intervallo, Cadenza d’inganno, A scuola) oltre a un booklet ben fatto.

Prima di lasciarvi alla nota introduttiva di Goffredo Fofi, un’altra piccola considerazione. Tra gli sceneggiatori de L’intervallo c’è Maurizio Braucci. Lo stesso di Gomorra per la regia di Matteo Garrone, Bellas Mariposas per la regia di Salvatore Mereu, e  Piccola patria, non ancora uscito, per la regia di Alessandro Rossetto. Se tre indizi danno una prova, anche alcuni discorsi sulla presenza o meno di ottimi scrittori per il cinema del nostro paese dovrebbero iniziare a essere rivisti.

Un ringraziamento a Tempesta Film per averci concesso di pubblicare  l’introduzione di Fofi.

di Goffredo Fofi

È diventato un luogo comune anche la difesa del cinema documentario, in Italia, contro il cinema ufficiale, ‘romanesco’, condizionato ovviamente dalle due forze che dominano culturalmente la capitale e i suoi ‘salotti’ – il giornalismo, soprattutto televisivo ma non solo, e la politica, intesa, ebbene sì, come ‘casta’, anche se da qualche anno in perpetuo rinnovamento di volti, non di costumi. È facile fare documentari, basta poco, costa poco; meno facile è che qualcuno li veda, fuori dal giro stretto degli amici; costa poco e costituisce un buon alibi per la smania creativa di una o due generazioni, sempre dentro le mode e, di conseguenza, un tantino più rivendicative e politicizzate delle precedenti.

Non è questo il caso di Leonardo Di Costanzo, che al documentario – da scolaro e poi da maestro, a Napoli, in Francia e dove capita, perfino nella Cambogia di Rithy Pan – ha dedicato la sua esistenza rispondendo a una vocazione che si è nutrita, nei modi più attenti e più esigenti, delle esperienze precedenti, delle teorizzazioni più rigorose che arrivavano dalla Francia e gli Usa e il Canada degli anni delle nouvelle vague. Registrazioni di eventi comuni ma significativi, approfondimenti per capirne le origini e le logiche, ma anche interrogazione sui modi, anzi sul rapporto tra i fini e i mezzi del proprio lavoro, sul significato delle proprie scelte formali che non sono mai solo tali – un’attitudine ‘documentata’ mirabilmente da Cadenza d’inganno, involontariamente pirandelliano nel racconto della ribellione del personaggio a diventare documento, oggetto e non soggetto, pretesto e non protagonista… Il conflitto con la realtà, infine, non piegabile alla manipolazione artistica, e tanto meno alla presunzione giornalistica e/o sociologica dell’‘autore’.

Occorre molta pazienza – Di Costanzo lo ha appreso forse da Wiseman – per ‘documentare’, occorre capire, occorre rispettare i tempi della vita e della fiducia. A scuola, Prove di Stato, Odessa e il poco d’altro che Di Costanzo ha pervicacemente portato a termine hanno la forma che le cose (le persone) esigevano anche senza averne coscienza, essendo infine esso (il film montato, finito) il medium di cui quelle cose, quelle persone avevano bisogno per parlare della propria esperienza ma spingendosi oltre la propria esperienza. Se il personaggio si impone – nel narcisismo che è di tutti quando vogliono mostrare e dimostrare agli altri le proprie ragioni – è allora importante che sia il contesto in cui la sua azione si colloca a prender rilievo, e spesso è del contesto che ci si ricorda (ciò che Di Costanzo vuole in definitiva che si ricordi) più che del suo apparente protagonista, tanto più quando questo protagonista (una preside, una sindachessa…) sono istituzionalmente ‘al centro’ e ne hanno piena coscienza. Il regista né mistifica né addolcisce, procede nel pieno rispetto che ogni personaggio esige dentro l’ambiente che lo esprime e in cui egli/ella agisce con il dovere professionale di intervenire, di mediare, di proporre, e se necessario di premere sulla realtà per cambiarla in meglio. Ed è allora questa pressione sulla realtà che in definitiva il documentario propone, anche quando dice il contrario, a essere forse una delle sue caratteristiche basilari, a essere forse la sua prima natura.

Queste dimostrazioni di assoluta onestà autoriale hanno portato Di Costanzo alla misura narrativa, controllata e matura, di un esordio nella fiction che esclude, come dire?, proprio l’impressione della fiction. Il documentario, in L’intervallo, ha poco peso, la sua lezione si avverte anzitutto nelle poche scene in cui si guarda Napoli, in cui la città – muta, per i due giovani protagonisti – si agita e vive, ma è evidente quanto dalla sua esperienza precedente il regista ha assorbito nel suo modo di porsi di fronte all’ambiente fisico e nel rispetto per i personaggi, qui due bravissimi attori che sembrano però aderire, per età per sentimento per radici sociali, a un reale che appartiene anche a loro, che essi conoscono bene, a dilemmi che, in altro modo, comunque li riguardano. L’intervallo ha la compattezza di un testo teatrale quasi pinteriano e una sceneggiatura precisa, perfetta, assistita dalla perizia fotografica di Bigazzi e dall’assenza, finalmente!, di qualsivoglia commento musicale (che di solito, nel cinema italiano, è la zeppa indispensabile al sostegno di testi e attori traballanti).

È un film straordinario, L’intervallo, per la sua qualità drammaturgica e la sua dimostrazione senza enfasi dell’immane ricatto che pesa sulla sua gioventù, o almeno sulla parte più trascurata della sua gioventù, quella che non ha famiglie e clan consolidati e forti in cui crescere e assai spesso sbracare. Se nei documentari il giudizio sulla realtà è infine demandato allo spettatore, qui Di Costanza trova naturalmente l’equilibrio tra il racconto della realtà e un giudizio sulla realtà: ed è in questa confluenza che, credo, nasce l’Autore. In L’intervallo il giudizio è netto, ma non travalica i personaggi: l’aneddoto narra un possibile caso e la sua complessità, e il film trova la sua grandezza in uno scavo attento e delicato, perseguito con un rispetto e una partecipazione che è il racconto a dimostrare, con i suoi piccoli passi, con i movimenti nello spazio, con il fuggirsi e cercarsi di due ragazzi che sanno già l’orrore del mondo e che di quest’orrore sono prigionieri, e non sanno e non vedono i modi di potervi sfuggire, ammesso che esistano.

Questi modi nessuno li aiuta a vederli, e da soli non potranno mai farcela, sembra dirci Di Costanzo. Quale potrà essere il futuro di Salvatore e Veronica in una società come la nostra? Ma la cosa più sorprendente di questo piccolo grande film è che esso, parlando di una difficilissima adolescenza napoletana né benestante né garantita, probabilmente la più difficile di tutte oggi in Italia, finisce per parlarci di ogni adolescenza italiana e di ogni violenza a suo danno compiuta dagli adulti – da chi propone impone educa, permette e ‘comunica’. È una questione morale, certamente, ma è anche una questione politica e anche, perché no?, una questione estetica.


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